La rimessa in questione delle verità storiche ha sempre fatto parte della sua tematica, da LE MOINEAU (72) ad ADDIO BUONAPARTE (84). Allora, in quello suo stile particolare che impresta anche ad ha Hollywood e che non piace a tutti, Chahine filma una strana riedizione della fuga di Giuseppe, il figlio di Giacobbe ("sono sempre stato attratto dai personaggi che riescono, superando tutti gli ostacoli, a raggiungere il loro scopo: riuscire nella vita è avere sofferto, avere amato, ma pure essere stati amati") fondendo curiosamente il peplum, la commedia musicale e soprattutto coreografica, il burlesco ed il politico... Poiché è certo che l'autore non rinuncia ad uno sguardo sull'Egitto attuale, all'islamismo.

La mano estetica - quando filma il deserto o una prospettiva fra le gloriose rovine del proprio paese - è innegabile: come innegabili sono le incertezze del montaggio, l'incomprensione di una sceneggiatura che si perde fra gli intrighi alla corte del faraone. Soprattutto, si stenta a capire quando il regista vuol farci prendere sul serio - fra lirismo e messaggio politico - la sua storia; e quando vuol fare opera dissacrante, entrare nel mito con il kitsch e la dissacrazione del faraone che sbadiglia.

Qualcuno dice che il regista - generoso ed ambizioso - è semplicemente confuso ed impotente a condurre a termine le proprie ambizioni: ma nelle sue impennate, nell'originalità dell'assunto, nella resa degli attori (Piccoli con la barba da patriarca ed il bastone del comando non era di riuscita evidente... ma funzione) il film offre momenti emozionanti."